Intervista a Giovanni Piperno su “Le cose belle”

Nell’agosto 1999 Agostino Ferrente e Giovanni Piperno erano a Napoli per girare un documentario per Raitre dal titolo Intervista a mia madre, uno dei capitoli del programma C’era una volta, che raccontava l’infanzia negata nel mondo. Scelsero di raccontare Napoli e girarono alcune scene con quattro bambini residenti nella periferia del capoluogo campano: Enzo, Fabio, Adele e Silvana. Alcuni anni dopo i due registi sono andati a vedere che sviluppo avevano avuto le vite di quei bambini ormai divenuti giovani adulti. Ne è nato Le cose belle, da alcuni giorni nelle sale, un film molto bello a metà strada tra documentario e fiction. Ne parliamo con uno degli autori, Giovanni Piperno.

Come avete effettuato il casting del film ed in che modo è avvenuta la scelta dei quattro protagonisti?

Andammo nel luogo in cui, data la stagione, avremmo sicuramente trovato il maggior numero di persone della fascia di età di cui avevamo bisogno: un parco acquatico. Facemmo fare un annuncio accattivante dall’altoparlante presentando il casting quasi come un gioco. Effettuammo brevi interviste a decine di ragazzini e ragazzine. Quando chiedevamo loro cosa volessero fare da grandi, tutti i maschi volevano fare i calciatori, tutte le femmine le modelle. La nostra scelta è caduta sugli unici che avevano date risposte diverse: circa una ventina. Abbiamo preso questi ragazzi, frutto di una prima selezione, siamo stati un po’ con loro e li abbiamo portati tra le altre cose a vedere un film, scoprendo che nessuno di essi era mai stato al cinema. Adele, Fabio e Silvana ci sono sembrati i più spontanei. Vincenzo, invece, lo abbiamo incontrato mentre cantava in un ristorante dove una sera eravamo andati a mangiare.

Mi ha molto colpito la frase che si sente all’inizio del film quando cioè si parla del tempo dicendo che esso non esiste, è soltanto “un trucco”. È una riflessione impressionante.

Sì, questa riflessione è frutto del prezioso lavoro fatto per il film da Maurizio Braucci e Paolo Vanacore e fotografa molto bene la situazione descritta. I ragazzi del film ma non solo loro vivono in effetti una sorta di paralisi, sono chiusi dentro situazioni esistenziali sostanzialmente bloccate in cui il tempo non sembra essere una linea orizzontale ma una sorta di cerchio dentro il quale molte vite sono rinchiuse. Basta pensare che oggi moltissimi ragazzi, in particolare di famiglie povere ma anche delle classi sociali meno disagiate, rinunciano sia a studiare che a cercare un lavoro: prima di cominciare a vivere pienamente le loro vite sanno già cosa sono il disincanto e la disillusione.

In questo senso Napoli sembra essere purtroppo un paradigma perfetto.

Napoli è speciale perché è una delle poche città che ha ancora un popolo, cioè un ampio numero di persone con un’essenza ben riconoscibile e per certi versi unica ed inimitabile. Ed è anche, certo, una città con un tasso molto alto di povertà media anche se, ripeto, la paralisi di cui ho parlato riguarda anche la piccola e media borghesia. Purtroppo a Napoli come altrove c’è uno spreco di talento ed energie enorme, nel caso di Napoli specialmente nella musica. Napoli, se mi lasci passare la frase fatta, è DAVVERO una città i cui abitanti hanno la musica nel sangue ma in parte sprecano ed in parte non sono aiutati a far fruttare il loro talento.

In questo senso, forse, esistono responsabilità politiche ben precise. Cosa ne pensi?

Noi abbiamo iniziato a girare in un periodo di relativo rilancio della città. Erano gli anni in cui andava in voga l’espressione “rinascimento bassoliniano”, con questo Sindaco molto amato che sembrava stesse dando una svolta. Poi, però, intervisti un bambino come Fabio e lui ti dice, in modo straordinariamente e certo inconsapevolmente profetico: “Bassolino non fa niente per i più piccoli” e allora capisci che non basta fare un restyling della città ma ci vogliono anche politiche di riscatto delle periferie, una maggiore attenzione verso zone e fasce sociali che spesso sono completamente assenti nelle varie agende politiche.

Come è stato il rapporto con i protagonisti del film e quello con le loro famiglie? Almeno per qualcuno di loro si ha l’impressione che raccontare le loro vite attraverso un film sia una sorta di riscatto per i sogni non realizzati.

Noi abbiamo seguito i nostri protagonisti nel corso degli anni, non li abbiamo mai abbandonati. Abbiamo anche organizzato con loro dei workshop sull’audiovisivo. In parte sì, il fatto di apparire in un film può essere stato per loro un piccolo riscatto anche se c’è da dire che ad un certo punto la piega che le loro vite stavano prendendo ed i problemi che stavano affrontando li ha un po’ demotivati.

Dovunque c’è Napoli c’è sempre spazio per sorridere, in particolare quando appare negli occhi di alcuni passanti la sorpresa di vedersi ripresi dalla telecamera. Tuttavia, mi pare che la cifra principale del film sia la malinconia.

Quella che si respira nel film è l’atmosfera che i ragazzi respirano nelle loro vite. Purtroppo, non certo per nostra scelta ma per le difficoltà di cui parlavamo prima, è venuto fuori un film un po’ amaro, anche se i ragazzi non sono mai domi e stanno lottando per venir fuori in qualche modo. Con Enzo, poi, stiamo faticosamente cercando di portare avanti un progetto che gli consenta di sfruttare le sue doti canore. Ed anche Silvana oggi ha un nuovo compagno.

Le cose belle conferma un certo stato di forma del cinema italiano documentario. Penso a opere come il Leone d’Oro Sacro Gra di Gianfranco Rosi, o a Materia oscura di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, o al bellissimo The dark side of the sun di Carlo Shalom Hintermann. Tuttavia non sempre questo genere viene adeguatamente valorizzato.

A me piace molto il cosiddetto “cinema che fa sognare”. Tuttavia la scelta del documentario, che per alcuni registi coincide con la loro vocazione, per altri è una scelta obbligata in quanto costituisce un mezzo più economico di fare film, sebbene privo di un vero mercato e pesantemente penalizzato dalla distribuzione o emarginato nei passaggi televisivi. Ad esempio, il mio documentario su Gianni Agnelli [Il pezzo mancante, ndr], che ha per fortuna avuto una buona distribuzione in sala, è andato in TV solo tre anni dopo la sua uscita ed in orario notturno. D’altronde, anche il cinema più industriale e “sponsorizzato” ha le sue grane e i suoi problemi: Marco Bellocchio ha realizzato con Vincere uno dei migliori film italiani degli ultimi anni ma non ha potuto scegliere la protagonista. Comunque il nostro film, uscito in un periodo in cui i cinema entrano in pausa estiva, resiste ancora in sala e ha ogni giorno degli spettatori, cosa che è per noi un risultato soddisfacente e inatteso.

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